giovedì 19 maggio 2011

Lollo, al paradiso serviva un pilone


Umberto Levorato
Umberto Levorato, per tutti “Lollo” se n'è andato a 79 anni. Il rugby italiano perde uno dei suoi monumenti. E' stato azzurro tra il 1956 e il 1965, capitano della nazionale nel '61 e nel '65, poi allenatore, anche dell'Italia. Pilone a Treviso e nelle Fiamme Oro, ha vinto 5 scudetti, prima di giocare in Francia, conquistandosi stima e amicizia tra i grandi del rugby transalpino. Si è spento a Favaro Veneto. Ecco due ricordi di “Lollo”, il secondo dei quali comparso sulla Tribuna di Treviso.
 



Sembrerà strano, ma per ricordare Levorato a me capita di dover partire dall'Equador. Alcuni anni fa ero sbarcato per qualche giorno a Quito durante un viaggio verso le Galapagos. Avevo prenotato un albergo praticamente a caso e del tutto casualmente mi trovai ad alloggiare in un piccolo hotel il cui proprietario era italiano. Anzi, aquilano. “Vi faccio subito una pastasciutta”. Poi, la prima sera ecco l'albergatore al nostro tavolo. E io a dirgli che a L'Aquila avevo parecchi amici, conosciuti al Fattori in occasione delle epiche sfide degli anni Ottanta con Treviso. E lui: “Rugby? Ma io ho giocato in serie A. Treviso? Sì, ci ho giocato contro e una cosa me la ricordo. Era la squadra di Levorato, fortissimo”. E via a prendere le foto.
Questo per dire quanto indelebile fosse, anche dall'altra parte del mondo e mezzo secolo dopo, il ricordo di un pilone formidabile, ma soprattutto di un uomo che con la sua passione era capace di contagiare chiunque gli capitasse a tiro.

Un anno Levorato fu richiamato a Treviso perché la mischia aveva bisogno di una scossa. Erano i tempi dei grandi derby con il Petrarca e il Benetton rischiava sempre di finire schiacciato dal rullo compressore di Munari, Boccaletto e soci, senza riuscire a mettere in moto i suoi fantastici trequarti. Sapete una di quelle sere fredde e nebbiose, all'allenamento con i sacchi di plastica addosso per evitare di inzupparsi fino alle ossa. Andai alla Ghirada per capire cosa faceva Levorato. Lui stava in mezzo a quell'umido dietro alla mischia come fosse nel suo ambiente naturale. Andava per i sessanta, ma aveva ancora un fisico pazzesco. Qualche volta parlava in italiano, ma gridava soltanto in francese: “Alé, alé, la melée, avancée avancée, la melée, pussez, pussez, la melée”. Poi tutti in cerchio a fare l'analisi tecnica, che consisteva sostanzialmente in questo: “Voi siete rugbisti, esserlo è una fortuna e un privilegio, e allora dovete andare in campo disposti a dare il sangue per i vostri compagni”. Punto. A noi che già discutevamo di spinte e controspinte, sostegno al largo e altre amenità, sembrava poco. Però la domenica dopo la mischia di Treviso giocò meglio.
Levorato giocatore l'ho visto l'ultima volta sul campo di Lancenigo, che ospitava un match tra gli Oldies di Italia e Francia. Un'amichevole, ovviamente. Balle. E' stata la partita più torrida che mi sia capitato di vedere in 30 anni di rugby. Si sono picchiati dall'inizio alla fine, con carognate a ogni mischia e gomitate a ogni touche, imprecazioni in vari idiomi e conti saldati senza rinvii e senza inopportune interferenze arbitrali, proprio come ai bei tempi. Vittoria dell'Italia, tanto per gradire, e Levorato alla fine a dire che sì, era stata dura, ma non più del solito.
Poi l'ho rivisto in giacca e cravatta al vecchio Parco dei Principi, banchetto degli ex prima di un match del Cinque Nazioni. Era l'unico italiano, ma per i francesi era uno di loro, uno dei grandi. Erano i tempi in cui ci mandavano la seconda squadra e vincevano sempre. E vederlo lì, nostro ambasciatore, così felice di portarsi appresso una reputazione conquistata sul campo, beh un po' di impressione la faceva.
Quattro anni fa, l'ultima telefonata, per un libretto su Treviso città del rugby. Mi raccontò di come aveva cominciato, dei suoi amici, della meta di Grenoble alla Francia nel '63, quando l'Italia sfiorò l'impresa. “In quella squadra – mi disse – ho imparato che i primi cinque uomini della mischia sono come le dita di una mano. Se le tieni aperte ti rompi un dito, se le tieni unite come un pugno puoi batterti contro chiunque”. Ciao Lollo, si vede che il paradiso aveva bisogno di piloni.
Paolo Catella


Sessant'anni in mischia

Hai perso l’ultima mischia. Ma quella non può vincerla nessuno. Vero, Umberto «Lollo» Levorato? Nemmeno un formidabile pilone come te, cavaliere per meriti sportivi. Chissà se avrai gridato il tuo inconfondibile poussez poussez, l’incitamento rimasto nel cuore e nell’anima da quando eri andato in Francia, all’Accademia francese di rugby. La «Sorbona» degli allenatori.
 E certo, ti maledicevano: se giocavi contro i francesi finivi per caricare i «galletti» e non i nostri. Ma chi ha venerato il rugby francese come te? E la mischia, di cui avevi un culto? Per questo - Umberto solo all’anagrafe - eri amabilmente «Lollò». Ti sei arreso alla casa «Cieli azzurri», a quasi 80 anni. Nei momenti di lucidità chiedevi sempre e ancora di Treviso, del Mogliano, dei tuoi ragazzi: ha seminato rugby, insegnandolo a migliaia di bambini, ragazzi, adulti, formati in campo e nella vita.
 Eri e sei una leggenda. Andavi a Parigi, al Parco dei Principi, accolto con tutti gli onori. Cinque scudetti, 15 presenze in Nazionale (e 2 volte capitano). E ct azzurro, nel 1962, con Del Bono e Del Grande, per 4 partite; quanti, nel mondo, possono vantare simili curriculum?
 Per 60 anni, Lollo, hai spinto: a Treviso, vincendo lo scudetto con la Faema nel 1956.
 Con Frelich e Peron in prima linea. «E’ morto uno dei nostri», si commuove Arturo Zucchello, il genio di quella squadra, per te un fratello. «Ci siamo conosciuti che avevamo 10 anni, e quando ci iscrivemmo nel dopoguerra alla Canottieri rinacque il rugby».
 Poi con le Fiamme Oro: lì conoscesti Poulain, genio d’Oltralpe. Dio solo sa quanto hai «spinto» e motivato da allenatore: a Treviso, per cedere il testimone a Peron.
 Eri tornato negli anni Settanta, in città, prima delle clamorose dimissioni notturne, con lo spogliatoio in ebollizione. E ancora alle Fiamme Oro, superclub italiano ante litteram; a Mogliano, a Mestre. E poi la nazionale.
 «Un uomo simbolo, era fortissimo - chiosa Giorgio Fantin - come tecnico venne folgorato dalla scuola francese. Il suo dio in terra? Battaglini».
 «Nous avons le ballon» - era l’altro tuo tormentone. Anima francese, ma il tuo orgoglio era fieramente veneto. Nato a Chirignago, diploma di geometra, la Breda e poi all’ospedale di Mestre: trevigiano di adozione per la guerra, la spinta e il possesso erano i fondamenti del tuo rugby. Nella vita diventavano presenza, senso del gruppo, amicizia e convivialità, tirate fino all’alba, fino agli ultimi anni. Erano i tuoi canti - («yo te darò una rosa» il più famoso) - e quelli più rudi dello spogliatoio, dove hai costruito uomini e vittorie, pagine di sacrifici e sconfitte da cui ripartire. Da uomo di prima linea, il primo tuo comandamento era non avere paura. Infatti eri sempre il primo, il trascinatore.
 Sulle spalle dei piloni, si appoggia il XV: lì nasce il gioco.
 «Poussez, poussez». In molti spingeranno anche domani, alle 11, alla chiesa di Favaro: l’ultimo grandissimo sostegno collettivo. Poi la sepoltura a Chirignago.
Ti piange anche la Fir, presieduta da Dondi: vinse con te lo scudetto 1958: «Un simbolo lo ricorderemo con affetto». E abbracceranno Rosy, la compagna di una vita. Aveva gestito un bar: il «Rugby bar», c’est facile.
Andrea Passerini

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