martedì 1 novembre 2011

Coppa del mondo: i segreti di Graham Henry

Paul Ackford per il Telegraph ha incontrato Graham Henry, allenatore degli All Blacks campioni del mondo, dopo il suo ritorno a casa dai festeggiamenti per la vittoria. Ha scoperto retroscena importanti per capire perché il digiuno neozelandese è finito.


Mi chiedo quale sia stata la tua strategia per affrontare lo stress. Henry ci pensa un attimo. "Me ne serviva una”, dice, "soprattutto in quella finale. Mi sentivo nel caos. Comunque. Ma non parleremo di questo". E' giovedì mattina, orario della Nuova Zelanda, e Henry è appena tornato a casa. "Il paese è impazzito. Migliaia di persone sono scese in strada per le parate a Auckland, Christchurch e Wellington. Sono tornato ieri sera. Ci sono state un po' di bevute con i ragazzi ed è stato bello. E' tempo di farsi una dormita". La soddisfazione è palpabile e meritata, ma ecco il punto. Henry è abbastanza onesto da ammettere che lui e la sua squadra sono quasi rimasti soffocati in quella finale, con le strategie che li avevano portati gloriosamente e imperiosamente attraverso la Coppa del mondo fino alla più grande prova collettiva della loro vita collettiva, disintegrate. Dopo una settimana sulle strade, solo ora Henry è in grado di registrare quanto vicina al disastro la Nuova Zelanda sia arrivata contro la Francia.

Parlarne è un processo tortuoso. "Non abbiamo giocato bene in finale," riconosce Henry all'inizio, "ma siamo riusciti a restare focalizzati sull'obiettivo e dimostrato un sacco di carattere e una certa disciplina. La Francia ha giocato meglio di noi, ed è stato difficile. Ma si trattava di ottenere un risultato e alla fine ci siamo riusciti".
Chiedi a Henry cosa significa "focalizzati sull'obiettivo" e diventa chiaro quanto opaca sia stata la Nuova Zelanda durante la finale. "Si tratta di avere un ottimo gioco ordinato e di colpire da queste fasi per avere slancio. Si tratta di avere palloni veloci sul placcaggio, cercando di evitare che l'opposizione faccia lo stesso. Non siamo riusciti a farlo in modo coerente e non siamo riusciti a giocare dalla parte giusta del campo. Ma bisogna insistere quando questi particolari non vanno come si spera. Forse non avremmo vinto quella partita 18 mesi fa".
Questo è il motivo per cui Henry si sentiva nel "caos" nel box degli allenatori. Non stava lavorando sul campo e non c'era molto che lui e i suoi colleghi potessero fare. "Quando si sta giocando una partita in cui i ragazzi cercano di prendere decisioni giuste in campo ogni 30 secondi o giù di lì, le decisioni che stanno prendendo e quelle che pensiamo dovrebbero prendere sono un pochino diverse. Ma la partita è finita. Non ho intenzione di tornarci".
La riluttanza di Henry a rivisitare il dettaglio di ciò che molti considerano il suo più grande trionfo è comprensibile, perché questa partita non ha convalidato i processi che ha messo in atto e che hanno guidato gli All Blacks alla riconquista del trofeo. Quelle scelte sono la vera eredità di Henry, l'impronta del suo genio, e rappresentano un modello di come le squadre del rugby internazionale dovrebbero funzionare. "C'erano tre aspetti fondamentali in quello che stavamo cercando di fare. Il primo è stato la comprensione, acquisire le conoscenze e le capacità mentali per gestire la pressione. Il secondo la creazione di un ambiente in cui i giocatori si sono auto-gestiti. E il terzo è stato fare in modo che ognuno avesse chiarezza totale sul gioco che stavamo cercando di praticare”.
La parte sulla pressione è forse la più interessante. "Si tratta di biologia del cervello, di come il cervello e la mente reagiscono in condizioni di stress. Volevamo capire come cambiare una mentalità cattiva in una mentalità buona. In finale forse avete visto Brad Thorn gettarsi acqua sul viso. Ha trovato che questo lo faceva concentrare, lo riportava al presente. Altri giocatori pestavano i piedi per terra durante le pause quando stavano sbandando e perdevano la concentrazione. Vediamo ragazzi sotto estrema pressione che non sembrano esserci. Non riescono a concentrarsi sul compito del momento e fuggono la realtà della loro situazione. Abbiamo dato loro informazioni sul perché accadono queste cose e fornito i “grilletti” necessari per farli ritornare sull'obiettivo. Non sono necessariamente grandi cose. Alcuni della squadra hanno scoperto che darsi schiaffi sulle ginocchia li aiutava".
Se il senso della missione di Henry è stato di rafforzare la responsabilità personale, c'è stato anche l'accento posto sul potenziamento del collettivo. "Volevamo che i giocatori prendessero possesso della squadra, così da farla diventare loro, con me e gli altri anziani da considerare come risorse. C'era un gruppo di leader formato da Richie McCaw, Mils Muliaina, Conrad Smith, Dan Carter, Brad Thorn, Keven Mealamu e Andrew Hore. Alcuni avevano le responsabilità sul campo, altri fuori. Ma si sono aiutati in entrambe le aree. Hanno fatto andare la squadra. Se avessi potuto diventare superfluo, avrebbe voluto dire che il mio lavoro era stato fatto, così come quello del manager Darren Shand. Non è proprio accaduto, ma la nostra influenza è stata sempre meno importante man mano che le idee si cementavano".
Carter è rimasto una figura cardine nella progettazione All Black anche dopo che un importante infortunio all'inguine ha posto fine al suo torneo. "È rimasto con il gruppo e ha partecipato a tutte le nostre riunioni dei dirigenti, come alle discussioni su quali ingredienti del nostro menu avremmo utilizzato in giocate particolari. E' stato estremamente importante per noi".
McCaw, alle prese con un problema a un piede, a malapena si è allenato nelle ultime quattro settimane, ma la squadra ha continuato a funzionare. L'elemento ultimo di base per gli All Blacks è stato una comprensione precisa e condivisa di quale gioco giocare, quando e contro chi. "Abbiamo cercato di garantire che eravamo totalmente sulla stessa pagina per quanto riguarda gli aspetti tattici, e che le mie idee, come quelle di Richie e Daniel, fossero in bianco e nero, molto chiare. C'è stata molta comunicazione tra gli allenatori e i giocatori anziani su quello che stavamo cercando di fare, assicurandoci che non ci fosse nessuna area grigia. Questa chiarezza è stata fondamentale".
Una chiarezza che non è sopravvissuta in finale, quando c'è stato un evidente scollamento tra ciò che Henry cercava e ciò che McCaw e gli altri riuscivano a realizzare in tema di strategia di gioco. Ma forse, paradossalmente, il fatto che i giocatori andassero fuori strada è stata la prova che il viaggio era stato completato. Henry voleva diventare ridondante. Aveva voluto che i suoi giocatori capissero come affrontare la pressione, e ora stava accadendo. Mentre una nazione si riuniva per la festa, un "caotico" Henry era diventato superfluo.
 

(Di seguito alcune rivelazioni di Graham Henry, ndr).

La storia che Hollywood si è persa.
“Richard Kahui e Stephen Donald sono molto amici e passano un sacco di tempo insieme. Quando Donald non è stato selezionato per la nostra squadra originale di Coppa del mondo, Kahui gli ha detto: tu resta in forma perché andrai a calciare il penalty della vittoria nella finale. È una storia vera. Stephen ha ribattuto: non fare lo stupido. Ma questo è esattamente quello che è successo”.
 
Il caso Inghilterra.
“Penso che gli ingredienti ci siano. E' semplicemente questione di metterli tutti insieme. Il gioco qui si svolge quasi esclusivamente con la palla asciutta e le superfici decenti, mentre nel Regno Unito può essere una sfida in pieno inverno solo per sopravvivere. Non c'è la stessa opportunità di sviluppare l'alta velocità del gioco alla mano. La principale differenza tra gli All Blacks e il resto del mondo è inoltre che in Nuova Zelanda un avanti può raccogliere e passare palla come un trequarti. In Inghilterra c'è molta enfasi sulla struttura, i calci per la posizione e la fisicità”.
 
Francia
“Una settimana non fanno nulla, quella dopo possono vincere il mondiale. E' un contrasto sorprendente e sta tutto nello stato mentale in cui si avvicinano alle partite. Penso che sia questione di rispetto. Forse non hanno rispettato il Galles, ma certamente hanno rispettato l'Inghilterra e gli All Blacks”.
 
Il piede di Richie McCaw.
“Richie non avrebbe dovuto giocare la finale. Il suo piede era a pezzi. Aveva una vite nella parte esterna del piede e il medico ha detto che non c'era motivo di fare scansioni o radiografie perché andava sempre in campo. Prima della finale non si è allenato con la squadra per quattro settimane. Camminava solo dietro gli altri, parlava con i ragazzi e poi faceva il captain's run prima della partita”.
 
L'infortunio di Dan Carter.
“Appena è successo ho capito che per lui il torneo era finito, ma una parte della nostra preparazione consisteva nel saper accettare l'imprevisto. È rimasto con il gruppo e ha frequentato tutte le riunioni dei dirigenti, ha fatto parte della discussione. Non abbiamo perso la sua esperienza e la sua conoscenza di quello che stavamo progettando di fare. Ha giocato 85 test, che sono 85 più di quanti ne abbia giocati io. E' stato estremamente importante per noi”.

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