Il suicidio in carcere a Torino di un detenuto rugbista romeno è stata riportata da numerosi quotidiani. Ma come è nata l'iniziativa di creare una squadra di rugby dentro il carcere piemontese? Pubblichiamo una scheda sul progetto, una cronaca dell'esordio, un servizio sull'iniziativa e un resoconto della tragedia.
IL PROGETTO
L'Associazione sportiva dilettantistica “La Dröla Rugby” è stata costituita il 1° maggio 2011 all'interno della Onlus “Ovale Oltre le Sbarre”. Dröla in piemontese significa “strano”. Nello scorso ottobre il debutto nel campionato regionale piemontese di serie C. La selezione dei detenuti-giocatori è stata effettuata attraverso un bando di reclutamento, diffuso in tutte le carceri italiane, che ha portato nel mese di settembre alla costituzione di una compagine di circa 25 unità sotto la guida dell'allenatore Stefano Rista assistito da don Andrea Bonsignore. Tre allenamenti settimanali più la partita. Tutti giocatori sottoscrivono un rigido regolamento interno, nel quale sono stabiliti i requisiti comportamentali e di convivenza civile richiesti per fare parte del progetto. Qualsiasi violazione del regolamento è punita con l'immediata esclusione. La squadra gioca tutte le partite all'interno del carcere e, per un accordo raggiunto con la Fir, non potrà salire di categoria in caso di promozione.
L'ESORDIO
Un «terzo tempo» così non si era mai visto. Il Vercelli Rugby è stata la prima formazione della serie C piemontese ad affrontare La Drola, squadra composta dai detenuti, all’interno del carcere Le Vallette di Torino. È analoga a quella del Forrest (squadra di calcio a 11 del penitenziario di Vercelli, ma da quest'anno iscritta al campionato Csi novarese dopo mille polemiche) l'iniziativa che vede protagonista la casa circondariale torinese. Tutto nasce da un'idea, subito supportata dal direttore del carcere Pietro Buffa, di Walter Rista (ex rugbista e nazionale azzurro) e del sacerdote don Andrea Bonsignore: l'associazione «Ovale oltre le sbarre» e la Compagnia di San Paolo fanno tutto il resto. Il sogno diventa subito realtà: dopo Napoli e Milano, anche Torino può schierare una formazione di rugby composta da carcerati.
Un mese e mezzo fa i primi allenamenti, sotto la guida di Stefano Rista: sono algerini, albanesi, senegalesi, polacchi, rumeni e cinque italiani. Molti di essi non hanno mai visto un pallone ovale, nemmeno in televisione. Alcuni intoppi burocratici impediscono a La Drola di disputare le prime tre giornate (che saranno comunque recuperate più avanti) per cui il campionato inizia dal quarto turno. Proprio quello contro il Vercelli. E così i gialloneri del giocatore-allenatore Imad Chtaibi - sabato pomeriggio – sono stati i primi a disputare questa particolarissima partita.«Per tutta la settimana abbiamo preparato mentalmente i ragazzi – attacca il team manager giallonero Elisabetta Cafaro - : per i nostri avversari il rugby non equivale a placcaggi, mischie e mete, ma soprattutto al ripristino
di valori come la lealtà, la solidarietà, il rispetto dell'avversario e l'osservanza delle regole».
Il calcio d'inizio è stato dato dal presidente regionale Franz Von Degerfeld e dal direttore del carcere
Pietro Buffa. Presenti, e al termine molto soddisfatti dell'ottima riuscita dell'evento, il numero uno de La Drola Natale De Lorenzo e Walter Rista.
Dopo il fischio finale, la partita più bella. Un flash indimenticabile. Quel terzo tempo caratterizzato da abbracci, scambi di battute, sorrisi e una t-shirt ufficiale in dono. Come a testimoniare la valenza di tali iniziative. Il diario di un sabato pomeriggio decisamente alternativo, trascorso fra campi da gioco e comunità Arcobaleno (che si occupa del recupero dei tossicodipendenti), viene redatto
dal team manager Elisabetta Cafaro: «Non abbiamo mai avuto la sensazione di essere in un bunker, tutto si è svolto un clima disteso e amichevole. Un'esperienza che ci porteremo dentro, in attesa di ritornare in carcere per la gara di ritorno».
Per la cronaca il Vercelli si è imposto 39-12, non senza fatica dopo il primo tempo in svantaggio, in cui è sembrata irriconoscibile.
Flippo Simonetti. La Stampa 25 ottobre.
L'IMPORTANZA DI FARE SQUADRA
Drola è il nome di una squadra di rugby piemontese che milita nel campionato di serie C; Drola, in piemontese, significa “strano”, curioso: nessun nome potrebbe essere più adeguato per questa squadra che nella palla ovale trova motivo di crescita, di riscatto sociale nel senso più stretto del termine.
Drola è una squadra di rugby multietnica formata da alcuni detenuti del carcere Le Vallette di Torino, allenati dall’ex azzurro Stefano Rista e facenti capo alla Onlus Ovale dietro le sbarre nata dall’incontro di appassionati di rugby decisi a “diffonderne gli insegnamenti e i valori all’interno della società, a partire dagli strati più disagiati”; nel perfetto spirito rugbystico, nella totalità dei valori che caratterizzano questo sport, nel quale il singolo conta solo se sostenuto dai propri compagni, pronti a dare e ricevere botte per 80 minuti ritmati dalla bellezza del rugby e dall’aggregazione che solo questo sport può infondere negli spiriti degli appassionati.
Dopo mesi di preparazione “dietro le sbarre” il 22 ottobre Drola ha esordito contro un Vercelli che si è imposto sui detenuti rugbysti; mai sconfitta fu tuttavia più dolce per i giocatori del Drola, che hanno visto pian piano prendere corpo ad “un progetto unico in Italia e, probabilmente, in Europa. Siamo grati ai club e alla Federugby che ha assecondato le nostre esigenze “ gioisce Pietro Buffa, direttore del carcere Le Vallette.
Durezza, contatto, sostegno dei compagni, il rispetto delle regole come filosofia portante dell’intero concetto di rugby come sport e come stile di vita; da qui è partita l’idea del progetto “Ovale dietro le sbarre”, per aiutare e sostenere il bisogno e la voglia di riscatto di moldavi, tunisini, marocchini, venezuelani ed italiani agli ordini di coach Rista.
Detenuti che, sparpagliati nelle disagiate e disastrose carceri italiane, sono stati trasferiti tutti in Piemonte, regalando loro il dono più prezioso per chi vive dietro le sbarre: la possibilità di recuperarsi grazie allo sport. Uno sport, il rugby, dove “sostegno” e “avanzare insieme” sono dogmi imprescindibili nella loro simbolica sintesi della vita di ognuno.
“Torri, guardie armate, mura di cemento liscio alte oltre 10 metri e telecamere di sorveglianza, container adibiti a spogliatoio, terreno morbido con una bella erba. Il rettangolo di gioco è stretto e corto, su tre lati muri grigi sul quarto gli spalti, sempre di cemento, vuoti” afferma chi ha avuto l’onere di ingaggiare con la mischia del Drola, ottanta minuti di battaglia nel rispetto dell’avversario, delle regole, dell’arbitro, del rugby stesso.
Forse un po’ grezzi nella qualità del gioco, inesperti e rudimentali, ma è impossibile non chiamare “squadra” questo XV: lo spirito aggregativo e solidaristico di questo sport è stato perfettamente assimilato dai giocatori del Drola, che fanno della disciplina la loro bandiera di Libertà, consci che l’errore si paga sul campo (lo stanno imparando) come nella vita (l’hanno già imparato).
È incredibile quanto questo sport, che potrebbe apparire agli occhi di un profano un vero guazzabuglio di botte e violenza, riesca ad offrire nuovi ponti di collegamento alla dignità umana: quanto l’onore di appartenere ad un gruppo che suda, soffre e gioisce insieme, unito dai valori dello sport più bello del mondo, possa donare la speranza anche a chi vive il dramma delle carceri tutti i giorni. Se lo Stato dimentica chi vive nelle sue carceri, il rugby non è disposto a lasciare marcire uomini che, lo stanno dimostrando, hanno solo bisogno di un’altra opportunità per dimostrare quanto forte è la loro voglia di riscatto sociale. Se ha unito un paese come il Sudafrica, traghettandolo fuori dall’Apartheid, si immagini cosa potrebbe fare questo sport per la dignità dei detenuti in Italia.
Andrea Spinelli Barrile. Agenzia Radicale 2 novembre 2011
LA TRAGEDIA DI CAPODANNO
Aurel Contrea, 36 anni, era in carcere da qualche mese. Nel suo passato, storie di furti e anche altri reati. Avvocato e familiari ora dicono che l’uomo da tempo era in stato di depressione. Vogliono che un’inchiesta ricostruisca quanto è accaduto e anche l’acquisizione delle cartelle cliniche; lui era stato visitato recentemente da medici specialisti e le sue condizioni psichiche erano state comunque ritenute idonee per sostenere la vita in cella.
L’altra notte, poco prima delle 22, gli altri detenuti della sezione E, una delle più tranquille, dove non ci sono i terribili problemi di altri settori del carcere, da anni in stato di sovraffollamento, gli hanno chiesto di scendere nella sala comune, dove era in programma una piccola festa per l’ultimo dell’anno. Lui ha risposto che “si sentiva stanco”.
Qualche istante dopo, con una corda rudimentale, di tessuto annodato, s’è impiccato alle sbarre della cella. Gli agenti di turno sono immediatamente intervenuti, questioni non di minuti, ma di secondi, lo hanno soccorso e subito trasferito nell’infermeria. Niente. Contrea è morto dopo qualche istante di agonia.
Faceva parte, da qualche tempo, della squadra di rugby “La Drola” che milita nel campionato di serie C. Il presidente, il notaio torinese Natale De Lorenzo, è scosso: “Il nostro è un lavoro difficile, ma ricchissimo, davvero, di tante soddisfazioni. Per una questione di rispetto per la persona che non c’è più, preferisco non aggiungere altro. Posso dire solo che siamo, con tutti i dirigenti e tutta la squadra, molto addolorati, molto provati per quanto è accaduto”. L’avventura dei detenuti rugbisti, un esperimento unico a livello nazionale, fortemente voluto anche dalla direzione del “Lorusso Cutugno”, è stata seguita dai media con un’interesse speciale, per i risultati ottenuti sulla strada di un pieno recupero per i reclusi che hanno scelto di allenarsi, imparare i segreti del rugby e infine di giocare con gli atleti delle altre squadre, tutte ospiti del campo di gare realizzato all’interno del carcere.
Una fiaba che s’è spezzata la notte di San Silvestro. Contrea aveva un fisico atletico, era un uomo che - attraverso lo sport - sembrava avviato al recupero, nonostante gli anni di prigione che doveva ancora scontare. Si chiude così un anno tragico per il carcere torinese: sei morti impiccati (uno nella camera di sicurezza di una caserma), più una lunga serie di persone salvate all’ultimo istante dagli agenti della polizia penitenziaria. A volte, questi interventi in extremis, non fanno neanche più notizia. Tanto sono frequenti. Uno degli ultimi in ordine di tempo, riguarda un giovane pusher egiziano. Salvato quando già aveva il cappio attorno al collo.
I sindacati degli agenti denunciano da mesi uno stato di sofferenza e di disagio insostenibili, sia per la polizia penitenziaria che per i detenuti. “A Torino - dicono il segretario nazionale Osapp Leo Beneduci e il segretario regionale Gerardo Romano - mancano trecento agenti. Un dato pesantissimo, che getta una luce sinistra sulla catena di morti avvenute all’interno di questo carcere dove la popolazione carceraria è da sempre superiore alla capienza ufficiale, anche di centinaia di unità”.
L’Osapp chiede al governo di “intervenire in modo più deciso, con provvedimenti che riescano ad allentare una pressione, sull’intero sistema carcerario italiano, non più sostenibile”. Ci sono stati suicidi anche tra gli agenti, costretti a turni massacranti, spesso in condizioni impossibili; mancano le risorse più elementari, persino le coperte e le dotazioni igieniche. “Carceri come discariche sociali, dove i detenuti stranieri sono in continuo aumento”, spiegano gli operatori. Nemmeno l’istituzione delle camere di sicurezza nei commissariati di polizia e nelle caserme dei carabinieri potranno risolvere la situazione. “Siamo favorevoli - concludono i sindacalisti - ma non basta”.
L’altra notte, poco prima delle 22, gli altri detenuti della sezione E, una delle più tranquille, dove non ci sono i terribili problemi di altri settori del carcere, da anni in stato di sovraffollamento, gli hanno chiesto di scendere nella sala comune, dove era in programma una piccola festa per l’ultimo dell’anno. Lui ha risposto che “si sentiva stanco”.
Qualche istante dopo, con una corda rudimentale, di tessuto annodato, s’è impiccato alle sbarre della cella. Gli agenti di turno sono immediatamente intervenuti, questioni non di minuti, ma di secondi, lo hanno soccorso e subito trasferito nell’infermeria. Niente. Contrea è morto dopo qualche istante di agonia.
Faceva parte, da qualche tempo, della squadra di rugby “La Drola” che milita nel campionato di serie C. Il presidente, il notaio torinese Natale De Lorenzo, è scosso: “Il nostro è un lavoro difficile, ma ricchissimo, davvero, di tante soddisfazioni. Per una questione di rispetto per la persona che non c’è più, preferisco non aggiungere altro. Posso dire solo che siamo, con tutti i dirigenti e tutta la squadra, molto addolorati, molto provati per quanto è accaduto”. L’avventura dei detenuti rugbisti, un esperimento unico a livello nazionale, fortemente voluto anche dalla direzione del “Lorusso Cutugno”, è stata seguita dai media con un’interesse speciale, per i risultati ottenuti sulla strada di un pieno recupero per i reclusi che hanno scelto di allenarsi, imparare i segreti del rugby e infine di giocare con gli atleti delle altre squadre, tutte ospiti del campo di gare realizzato all’interno del carcere.
Una fiaba che s’è spezzata la notte di San Silvestro. Contrea aveva un fisico atletico, era un uomo che - attraverso lo sport - sembrava avviato al recupero, nonostante gli anni di prigione che doveva ancora scontare. Si chiude così un anno tragico per il carcere torinese: sei morti impiccati (uno nella camera di sicurezza di una caserma), più una lunga serie di persone salvate all’ultimo istante dagli agenti della polizia penitenziaria. A volte, questi interventi in extremis, non fanno neanche più notizia. Tanto sono frequenti. Uno degli ultimi in ordine di tempo, riguarda un giovane pusher egiziano. Salvato quando già aveva il cappio attorno al collo.
I sindacati degli agenti denunciano da mesi uno stato di sofferenza e di disagio insostenibili, sia per la polizia penitenziaria che per i detenuti. “A Torino - dicono il segretario nazionale Osapp Leo Beneduci e il segretario regionale Gerardo Romano - mancano trecento agenti. Un dato pesantissimo, che getta una luce sinistra sulla catena di morti avvenute all’interno di questo carcere dove la popolazione carceraria è da sempre superiore alla capienza ufficiale, anche di centinaia di unità”.
L’Osapp chiede al governo di “intervenire in modo più deciso, con provvedimenti che riescano ad allentare una pressione, sull’intero sistema carcerario italiano, non più sostenibile”. Ci sono stati suicidi anche tra gli agenti, costretti a turni massacranti, spesso in condizioni impossibili; mancano le risorse più elementari, persino le coperte e le dotazioni igieniche. “Carceri come discariche sociali, dove i detenuti stranieri sono in continuo aumento”, spiegano gli operatori. Nemmeno l’istituzione delle camere di sicurezza nei commissariati di polizia e nelle caserme dei carabinieri potranno risolvere la situazione. “Siamo favorevoli - concludono i sindacalisti - ma non basta”.
Massimo Numa. La Stampa 2 gennaio 2012
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