Pierre Villepreux, già tecnico della Francia e dell'Italia, guru del gioco totale, su Midi Olympique ha analizzato cosa accade all'interno di una squadra sconfitta (in questo caso la Francia battuta dall'Italia) e come si può tornare vincenti passando attraverso un fallimento.
Questa settimana non ho avuto tempo di scrivere della sconfitta francese contro l'Italia. Sull'evento è stato versato molto inchiostro. Naturalmente, quando si verifica una battuta d'arresto non prevista, lo staff tecnico subisce critiche e deve affrontare opinioni di ogni tipo. Tutti gli allenatori, indipendentemente dal livello sanno che devono fare i conti con risultati buoni e cattivi, che rafforzano o indeboliscono, talvolta distruggono. Al più alto livello, successi e fallimenti possono trasformare i meriti di un allenatore in demeriti, e viceversa. A seconda dei casi, si possono apprezzare le competenze o condannarle. Questa credibilità o questo deficit di competenze si perdono e ritornano altrettanto velocemente, ma le situazioni negative, quando si trasformano in una sconfessione, creano un enorme spreco nel contesto di un progetto di quattro anni messo in atto per rendere possibili alla nostra squadra nazionale le migliori prestazioni nella successiva Coppa del Mondo.In questo quadro, l'allenatore e lo staff stanno soffrendo gli effetti negativi di un processo di destabilizzazione e le ambiguità di una valutazione che sta diventando un processo senza appello. In ogni caso, questa valutazione non può essere oggettiva perché la ripartizione delle responsabilità non è necessariamente equilibrata. In effetti, è dato più credito a quanto dicono i giocatori e molto meno alle spiegazioni e alle giustificazioni dell'allenatore. Una tendenza che non mancherà di essere invertita in caso di successo.
Quando siamo bambini impariamo a camminare cadendo e ce ne serviamo per procedere meglio, ma nello sport oggi è difficile accettare che perdere rientra nella normalità. Utilizzare la sconfitta positivamente diventa problematico, in quanto il match successivo pone giocatori e allenatori in uno stato di probabilità di nuova sconfitta, una sorta di situazione di sopravvivenza, che indebolisce necessariamente e mette il gruppo nell'obbligo di cercare la vittoria non più nella ricerca del gioco, ma nel combattimento, l'onore, la rabbia, conseguenze del malessere vissuto in precedenza. Ma attenzione, questa opzione non è senza rischi, perché se non ci si rassicura rapidamente dimostrandosi efficaci, dominando l'avversario e avvantaggiandosi nel punteggio, la tendenza dei giocatori è di andare verso un coinvolgimento minore, per mettersi individualmente in condizioni di sicurezza, ciò che genera un comportamento di fuga o di inibizione, a scapito delle dinamiche collettive, in quanto il cervello non mancherà di associare le difficoltà al disagio provato nelle partite precedentemente perse. Per l'allenatore i rimedi diventano difficili da trovare. Quando Marc Lievremont prima della partita e attraverso la stampa mette i giocatori davanti alle loro responsabilità, fa appello al loro orgoglio, ma sa che il rischio esiste.
Scegliere il combattimento era essenziale non solo per vincere la partita contro il Galles, ma anche per preparare il seguito con più serenità. Il paradosso sta nella convinzione perniciosa che la realizzazione del progetto di gioco selezionato potrebbe essere raggiunta senza gli ingredienti di base, vale a dire l'aggressività e l'intensità sia in attacco che in difesa. Ma questa mobilitazione di energie emozionali collettive porta spesso a ridurre le ambizioni del gioco. E dopo la vittoria, per arrivare a suggerire che questo è l'elemento vincente che va riprodotto durevolmente c'è solo un passo, che però io non voglio fare. Quando la lotta non è intesa come una costante che crea le condizioni necessarie per le altre componenti del gioco, in particolare quelle tattiche che si esprimono in modo più efficiente, il miglioramento della performance collettiva sarà casuale.
Occasionalmente questa opzione ha permesso di vincere, e sicuramente non c'erano nel contesto molte alternative. Giusto che sia così, ma sarebbe rischioso non solo esserne soddisfatti ma anche diventare dipendenti da questo unico fattore, dunque di “lasciare credere che...” per sperare di affrontare i combattimenti che ci attendono in Coppa del Mondo nelle migliori condizioni.
Dopo questa partita, esiste un'evoluzione e trasformazione possibile del gioco che non vada a scapito della mentalità combattiva manifestata contro i gallesi? Certo, a patto che venga condivisa l'idea di gioco che si desidera, in rapporto alle maggiori esigenze per competere con i migliori. E che ci sia tra staff e giocatori una vera condivisione, una rappresentazione comune del rugby desiderato. C'è ancora tempo per arrivare a questo obiettivo, dopo che ci siamo rimessi in condizioni di vincere, se i giocatori, che sono i responsabili del gioco, non trascineranno i piedi e non si serviranno di un'altra battuta d'arresto per rompere il "patto" che coinvolge le capacità di tutti di superare insieme le prove. Sappiamo che i più grandi successi sono disseminati di fallimenti. I vincitori, quelli veri, sanno superarli.
Quando siamo bambini impariamo a camminare cadendo e ce ne serviamo per procedere meglio, ma nello sport oggi è difficile accettare che perdere rientra nella normalità. Utilizzare la sconfitta positivamente diventa problematico, in quanto il match successivo pone giocatori e allenatori in uno stato di probabilità di nuova sconfitta, una sorta di situazione di sopravvivenza, che indebolisce necessariamente e mette il gruppo nell'obbligo di cercare la vittoria non più nella ricerca del gioco, ma nel combattimento, l'onore, la rabbia, conseguenze del malessere vissuto in precedenza. Ma attenzione, questa opzione non è senza rischi, perché se non ci si rassicura rapidamente dimostrandosi efficaci, dominando l'avversario e avvantaggiandosi nel punteggio, la tendenza dei giocatori è di andare verso un coinvolgimento minore, per mettersi individualmente in condizioni di sicurezza, ciò che genera un comportamento di fuga o di inibizione, a scapito delle dinamiche collettive, in quanto il cervello non mancherà di associare le difficoltà al disagio provato nelle partite precedentemente perse. Per l'allenatore i rimedi diventano difficili da trovare. Quando Marc Lievremont prima della partita e attraverso la stampa mette i giocatori davanti alle loro responsabilità, fa appello al loro orgoglio, ma sa che il rischio esiste.
Scegliere il combattimento era essenziale non solo per vincere la partita contro il Galles, ma anche per preparare il seguito con più serenità. Il paradosso sta nella convinzione perniciosa che la realizzazione del progetto di gioco selezionato potrebbe essere raggiunta senza gli ingredienti di base, vale a dire l'aggressività e l'intensità sia in attacco che in difesa. Ma questa mobilitazione di energie emozionali collettive porta spesso a ridurre le ambizioni del gioco. E dopo la vittoria, per arrivare a suggerire che questo è l'elemento vincente che va riprodotto durevolmente c'è solo un passo, che però io non voglio fare. Quando la lotta non è intesa come una costante che crea le condizioni necessarie per le altre componenti del gioco, in particolare quelle tattiche che si esprimono in modo più efficiente, il miglioramento della performance collettiva sarà casuale.
Occasionalmente questa opzione ha permesso di vincere, e sicuramente non c'erano nel contesto molte alternative. Giusto che sia così, ma sarebbe rischioso non solo esserne soddisfatti ma anche diventare dipendenti da questo unico fattore, dunque di “lasciare credere che...” per sperare di affrontare i combattimenti che ci attendono in Coppa del Mondo nelle migliori condizioni.
Dopo questa partita, esiste un'evoluzione e trasformazione possibile del gioco che non vada a scapito della mentalità combattiva manifestata contro i gallesi? Certo, a patto che venga condivisa l'idea di gioco che si desidera, in rapporto alle maggiori esigenze per competere con i migliori. E che ci sia tra staff e giocatori una vera condivisione, una rappresentazione comune del rugby desiderato. C'è ancora tempo per arrivare a questo obiettivo, dopo che ci siamo rimessi in condizioni di vincere, se i giocatori, che sono i responsabili del gioco, non trascineranno i piedi e non si serviranno di un'altra battuta d'arresto per rompere il "patto" che coinvolge le capacità di tutti di superare insieme le prove. Sappiamo che i più grandi successi sono disseminati di fallimenti. I vincitori, quelli veri, sanno superarli.
Pierre Villepreux
Nessun commento:
Posta un commento