mercoledì 19 ottobre 2011

Cosa significa affrontare gli All Blacks

Paul Ackford ha affrontato gli All Blacks con l'Inghilterra quattro volte e ha sempre perso. Ora, sul Telegraph, spiega perché è così difficile batterli.

 
La mia storia d'amore con il rugby della Nuova Zelanda di rugby è cominciata 33 anni fa. Dico storia d'amore ma è inesatto. E' più una storia di paura, perché nel 1978, all'età di 20 anni, mi sono trovato a giocare contro gli All Blacks di Graham Mourie in tour vestendo la maglia della selezione Sud e Sud-Ovest, come si usava in quei giorni lontani.
Oddio, quei Blacks erano buoni. Non che fossero uomini particolarmente duri. Ero cresciuto in un campionato della contea in cui l'appuntamento fisso tra Devon e Gloucester di solito cominciava con una rissa e si concludeva con una serie di battaglie campali. Una volta ho fatto l'errore di torcere i testicoli di Phil Blakeway, un pilone di Gloucester forte in modo soprannaturale. Volevo convincerlo a lasciare il pallone in una maul. Grande errore. Blakeway mi afferrò il polso e quando la maul si è districata siamo rimasti solo io e lui, che teneva ancora in mano il mio polso, mentre battevo il record mondiale delle scuse vomitate balbettando in quei quindici secondi di paura. Ho passato i pochi minuti restanti della partita il più lontano possibile dalla palla e da Blakeway.
Così ho capito cosa sono gli uomini duri. Gli All Blacks lo erano, ma la cosa che mi ha affascinato di più, e ancora mi affascina, è l'efficienza e la precisione con cui interpretano i loro affari. E' stato vero per ogni squadra All Black appena decente nel corso degli anni ed è certamente il caso di questa Coppa del mondo.
Sanno fare le cose semplici molto, molto bene. Ogni giocatore è bravo nel suo lavoro di base, e questo alimenta le più complesse e interconnesse parti del gioco - rimessa laterale, mischia, caccia del calcio, difesa. Tutto ciò si combina con una storia e una cultura che incoraggiano i giocatori a prendere decisioni autonome in campo e dà loro capacità e momentum che è difficile contrastare.
Abbiamo perso quella partita nel 1978 e un'altra nel 1979, quando gli All Blacks sono tornati. Ho archiviato le due sconfitte nel bagaglio dell'esperienza. Ero solo un ragazzino. Che ne sapevo di squadre di successo? Ma nel 1989 li ho avuti di fronte come parte di un team dei Barbarians che comprendeva il nucleo dei Lions che avevano battuto l'Australia per due test a uno. Avrebbe dovuto essere un'esperienza esaltante, e lo è stata fino a un certo punto. Per gran parte del match è stata una gara equilibrata. Fino a quando uno degli All Blacks uscì per infortunio a 20 minuti dalla fine. I Barbarians erano in difesa con una mischia all'interno del loro 25 (si parlava di yard, non di non metri in quei tempi) e la riserva All Black - non ricordo chi - venuto dalla panchina, si schierò in terza linea e fu immediatamente coinvolto nel movimento che portò alla meta.
In questi giorni accade lo stesso. Data una certa pianificazione del gioco, e con la quantità di tempo che i giocatori passano nella formazione e nelle riunioni, non ci sono scuse per una mancanza di organizzazione. Ma allora, quando il rugby era amatoriale, quando non erano permesse sostituzioni tattiche e quando le squadre nazionali si incontravano il mercoledì sera per una partita Cinque Nazioni il sabato, qualsiasi sostituzione richiedeva normalmente 30 secondi discussione in campo e cinque minuti di ambientamento al ritmo del gioco e al ruolo. Non così gli All Blacks. Sapevano cosa fare dalla panchina, in campo, nel primo minuto, nell'ultimo.
E poi c'è la mistica. Nel 1991 ho giocato contro gli All Blacks per la quarta e ultima volta con l'Inghilterra nel match di apertura della Coppa del mondo. Era una squadra inglese che aveva appena vinto un Grande Slam e che schierava luminari come Richards, Winterbottom, Teague, Dooley, Carling, Guscott, Andrew, Underwood: uomini capaci, esperti di rugby. Il bus che ci portava dall'hotel a Twickenham era silenzioso come un funerale. Normalmente ci sarebbero state chiacchiere, tentativi di conversazione, ma non in quella occasione. Ogni giocatore era bloccato in una zona di concentrazione che, a pensarci bene, era estranea ai personaggi, li limitava, indicazione di come il tipo di occasione e la natura dell'avversario avevano contaminato un gruppo di successo e la sua fiducia.
Questo è l'elemento aggiuntivo che i neozelandesi portano con sé. La garanzia che contro di loro non ci sono vittorie facili, che ogni possesso, ogni opportunità di punteggio, verrà ferocemente contestato. Ho affrontato gli All Blacks quattro volte e non li ho mai battuti. Ho giocato contro la Francia cinque volte e ho vinto sempre. Questa finale di Coppa del mondo? E' una storia già scritta.

Paul Ackford 

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